Il pubblico ha certo apprezzato l’esibizione de Le Orme ma è evidente che l’attesa maggiore è riservata al gruppo di Nocenzi e di Giacomo; non appena i musicisti si affacciano sul palco, scoppia un’ovazione rumorosa. E’ un Banco in gran spolvero, nonostante tutto, quello che si presenta al pubblico della Casa del Jazz: di Giacomo è in forma straordinaria, la sua voce ha ritrovato tutta l’energia che, nelle recenti esibizioni, pareva essersi affievolita. Nocenzi, come d’abitudine, siede tra tastiera e organo, dirigendo il gruppo con impeto quando si tratta di pigiare i tasti neri e bianchi e pacatezza quando, invece, si abbandona a digressioni nostalgiche e riflessioni poetiche; il tastierista, in effetti, prende la parola in più occasioni per raccontare aneddoti e impressioni sul concerto, prendendo spunto dai pezzi appena suonati per lasciarsi andare a considerazioni ad alto rischio di retorica che, grazie alla sua abilità, riescono ad arrivare allo spettatore senza appesantimenti di vacua utilità. Il Banco infiamma il pubblico di fan che, ormai, cercano di avvicinarsi quanto più possibile al palco, sedendosi anche a terra pur di stabilire un legame ancora più forte con la band. Il basso di Ricci, come sempre, si inerpica in geometrie sonore complesse che ben si accompagnano alla prestazione di Masi alla batteria; la sezione ritmica, che in un gruppo come il Banco rischia di passare in secondo piano, svolge il suo compito in maniera precisa e convincente. Bravi anche Papotto, ai fiati, suoni di sottofondo e rumori vari e Marcheggiani che, con la sua chitarra, si lascia infervorare dallo spirito del rock ‘n’ roll, producendosi in assoli lanciatissimi e muovendosi sul palco più di tutti gli altri musicisti messi insieme. Graditissima sorpresa verso il finale del concerto: durante la presentazione dei componenti del gruppo, sale sul palco Rodolfo Maltese. Sebbene visibilmente provato, il chitarrista accompagna i suoi compagni nell’esecuzione degli ultimi pezzi, prima che le luci si spengano e il gruppo scompaia dietro le quinte.
In perfetto orario salgono sul palco Le Orme. La formazione è quella che ha realizzato “La Via della Seta”, l’ultimo album del gruppo, uscito proprio all’inizio di quest’anno. Lo storico batterista del gruppo, Michi dei Rossi, è affiancato da musicisti di tutto rispetto come Jimmy Spitaleri, già cantante dei Metamorfosi, Michele Bon, alle tastiere, Fabio Trentini, basso e chitarra acustica, William Dotto chitarra elettrica e acustica, e Federico Gava al pianoforte. Proprio come accadde per l’album da studio, è bello notare come la coesistenza di musicisti di generazione diversa riesca in qualche modo a dare una marcia in più al gruppo che si propone al suo pubblico con vigore ed energia. Senza dilungarsi troppo in chiacchiere, Le Orme infilano un pezzo dopo l’altro, alternando brani tratti dalla loro ultima fatica a grandi classici, per la gioia dei fan che gli siedono davanti.Dopo un’ora abbondante di concerto, Le Orme si accingono al commiato, lasciando la scena al Banco del Mutuo Soccorso.
Il pubblico ha certo apprezzato l’esibizione de Le Orme ma è evidente che l’attesa maggiore è riservata al gruppo di Nocenzi e di Giacomo; non appena i musicisti si affacciano sul palco, scoppia un’ovazione rumorosa. E’ un Banco in gran spolvero, nonostante tutto, quello che si presenta al pubblico della Casa del Jazz: di Giacomo è in forma straordinaria, la sua voce ha ritrovato tutta l’energia che, nelle recenti esibizioni, pareva essersi affievolita. Nocenzi, come d’abitudine, siede tra tastiera e organo, dirigendo il gruppo con impeto quando si tratta di pigiare i tasti neri e bianchi e pacatezza quando, invece, si abbandona a digressioni nostalgiche e riflessioni poetiche; il tastierista, in effetti, prende la parola in più occasioni per raccontare aneddoti e impressioni sul concerto, prendendo spunto dai pezzi appena suonati per lasciarsi andare a considerazioni ad alto rischio di retorica che, grazie alla sua abilità, riescono ad arrivare allo spettatore senza appesantimenti di vacua utilità. Il Banco infiamma il pubblico di fan che, ormai, cercano di avvicinarsi quanto più possibile al palco, sedendosi anche a terra pur di stabilire un legame ancora più forte con la band. Il basso di Ricci, come sempre, si inerpica in geometrie sonore complesse che ben si accompagnano alla prestazione di Masi alla batteria; la sezione ritmica, che in un gruppo come il Banco rischia di passare in secondo piano, svolge il suo compito in maniera precisa e convincente. Bravi anche Papotto, ai fiati, suoni di sottofondo e rumori vari e Marcheggiani che, con la sua chitarra, si lascia infervorare dallo spirito del rock ‘n’ roll, producendosi in assoli lanciatissimi e muovendosi sul palco più di tutti gli altri musicisti messi insieme. Graditissima sorpresa verso il finale del concerto: durante la presentazione dei componenti del gruppo, sale sul palco Rodolfo Maltese. Sebbene visibilmente provato, il chitarrista accompagna i suoi compagni nell’esecuzione degli ultimi pezzi, prima che le luci si spengano e il gruppo scompaia dietro le quinte.
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Ecco che il Vostro, stavolta, si ritrova a seguire un concerto, sempre nel consueto stile pop rock, ma, inopinatamente in una sede diversa; non più i ruspanti venue al Deposito Giordani o luoghi simil-spartani, bensì tra i velluti rossi del Teatro Giuseppe Verdi di Pordenone.
E' qui che, inaspettatamente, si terrà infatti la data pordenonese dell'"Enlarge Your Penis Tour 2012" degli Elio e le Storie Tese. E già all'ingresso del teatro e nel foyer vedo entrare gente "strana". Mi spiego meglio. Oltre a consueti spettatori "da elioelestorietese", cioè tipo me, casual, età tra il giovine e la mezza, però con facce e abbigliamenti che denotano di certo una possibile propensione al quel tipo di musica, testi e serata, ecco arrivare invece anche delle coppie e dei gruppetti che mi lasciano letteralmente basito. Abbigliamento pseudo elegante, iperclassico, un po' demodé, età media over 65 e ben oltre! Accipicchia che bacino di pubblico variegato ed insospettabile ha Elio, penso tra me e me! Ma la cosa non mi convince del tutto. Seduto in platea (e già mi fa strano andare a un concerto delle Storie Tese con la giovin donzella inserviente che con solerzia e gentilezza mi accompagna ai posti numerati: e che è? Paolo Conte? Puccini?) mi dedico meglio a questa osservazione antropologica. Due categorie assollutamente agli antipodi (gli Eliani e questi Anziani Alieni) riempiono la sala con disposizioni a macchia di leopardo. Poi l'illuminazione! Ma certo! Sono gli abbonati ignari! Dev'esssere per forza così! Oltre a quelli intervenuti apposta per la serata, proprio per vedere Elio e C., questi altri invece hanno comprato l'abbonamento stagionale al Verdi, e nel pacchetto si ritrovano anche questo appuntamento sconosciuto. Oddio, magari Elio l'hanno visto in X Factor, ma dubito fortemente che sappiano che musica fa e sopratutto la singolarità dei suoi testi. Da quel momento per me la serata si sdoppia nel seguire, da una parte, cosa succede sul palco, e, dall'altra, nel controllare con irresistibile curiosità come reagiscono gli Alieni nelle file di fianco a me. Ecco però che iniza lo spettacolo. Già l'inizio è esilarante. Elio compare da solo sul palco, si scusa per l'inesistente ritardo, e giustifica la sua solitudine con il traffico impazzito di Pordenone e il suo dedalo di sensi unici nel quale i suoi musicisti sono al momento dispersi. (Tta parentesi: i lunedì sera a pordenone sembra di essere a Chernobyl dopo la catastrofe, come movimento e traffico...) Ecco che i componenti entrano uno ad uno trafelati e mortificati del finto ritardo, e s'inseriscono nella prima canzone della serata: la più che trentennale CAVO, una serenata alla propria bella con annessa preghiera al cavo jack della chitarra di non dissaldarsi del tutto. Quando l'ensamble è al completo, e cioè: Elio - voce solista, chitarra, flauto traverso Faso - voce, basso elettrico, cori Cesareo - chitarra, cori Rocco Tanica - voce, tastiera, vocoder, drum machine, diamonica Christian Meyer - batteria, percussioni Jantoman - tastiera, cori. e la grande Paola Folli alla voce e ai cori, ecco che il finale della prima canzone, diventa il roboante finale del concerto!!! Effetti di luci, rullatone di batteria, musica che raggiunge il parossismo, grande applauso, ed eccoli mano per mano davanti al pubblico a ringraziare, inchini e baci, come dopo due ore di Live! Per fortuna arriva una finta lettera del questore di Pordenone, ad intimarli, per motivi di ordine pubblico, a continuare, loro malgrado il concerto. Nonostante le proteste di Elio per l'evidente censura alla loro musica di qualità, "MA CONCENTRATA", ecco che il concerto comincia davvero con una cover di IN THE STONE degli Earth Wind and Fire, con liriche davvero veritiere: ”...Siamo un po’ vecchiotti ma spacchiamo il culo ai passeri...”, ad esempio. Da ora in poi, a inframezzare un brano e l'altro, Elio e pards ci concedono irresistibili scenette, e poi un dialogo ironico con una voce un po' esagitata dal pubblico (vero fan o complice?), che continuerà per tutta la sera. Ecco invece che da una poltrona davanti alla mia, come se fosse un casuale spettatore, sbuca l'Architetto! Quel Mangoni che, pur non essendo componente degli Elios, è presenza fissa nelle loro performance. Sale sul palco come se fosse qui per caso, ma poi sottolinea con le sue danze e travestimenti un po' tutto il concerto, con interpretazioni esilaranti e anche davvero faticose (questo Mangoni, pur inquartato e con pancia, è allenato come un maratoneta, accidenti!) Si prosegue con il FANTASMA FORMAGGINO, poi la mitica SHPALMAN, poi la canzone GOMITO A GOMITO (CON L'ABORTO)... E, amici miei, è davvero uno spasso per me vedere da una parte i fans felici e esaltati (seppur contenuti giocoforza sulle poltrone), e dall'altra le facce basite-stupite-indignate-marmoree dell'altra metà del pubblico, gli Alieni dell'Abbonamento Alla Stagione Teatrale. Se mai la definizione Faccia Di Cemento ha avuto un'impersonificazione materiale, questo è il caso, credetemi. E mi chiedo: ha senso per un gruppo così, un luogo come un teatro? Mah... Per me, no. Ecco CARTONI ANIMATI, e poi via via le altre, suonate ed interpretate con la consueta inquietante maestria. Inquietante perché questi fior di musicisti sono, per i miei rozzi gusti, anche troppo bravi e spesso anche un po' autocelebrativi: ritmi sincopati cervellotici, variazioni tonali ardite e raffinatissime. Insomma questi strasimpatici maestri da conservatorio, forse alla fine mi risultano cordialmente un pochino antipatici, per il loro essere i primi della classe. C'è da dire poi che la dimensione live, con i suoni sicuramente più duri, corposi, prepotenti e massicci, con un impianto poi forse sovradimensionato all'ambiente, non esalta la scelta delle due tastiere, che intessono trame forse ridondanti, più adatte ad un ascolto pulito e cristallino come quello su disco. Come sempre (intendo quasi sempre nei concerti dal vivo) inoltre, almeno dalla mia poltrona, la voce è poco intelligibile, e comunque non quanto i testi meritino! Detto questo: che concerto! Strepistosi, mannaggia. 2 ore tonde tonde di Live, che volano via, senza un momento di noia. Brani in un crescendo ritmico e spettacolare, tra cui: ENLARGE YOUR PENIS (che da il titolo al tour, la prima vera e propria canzone su Internet), NUDO E SENZA CACCHIO, T.V.U.M.D.B. per poi salire con quelle più dance e pestate! Nel bis la strarichiesta TAPPARETTA sugella alla grande, un grande concerto! Che dire: maledetti Elios, avete vinto anche stavolta! 22/03/12 Massimo Adolph Nutini - Copyright TheGreatComplottoRadio Scaletta completa della serata: Enlarge Your Penis Tour 2012 CAVO EW&F IN THE STONE FANTASMA FORMAGGINO SHPALMAN GOMITO A GOMITO CARTONI ANIMATI COME GLI AREA ENLARGE YOUR PENIS PLAFONE ABBECEDARIO NUDO SENZA CACCHIO CATETO T.V.U.M.D.B. DISCO MUSIC BORN TO BE ABRAMO PARCO SEMPIONE (bis) PIPPERO TAPPARELLA Ed eccoci a Milano per la prima data Italiana del 2012 per gli irlandesi God is an astronaut.
Locale pienissimo, non c’è spazio per muoversi! Sul palco i God is an astronaut sono con la formazione recentemente ampliata e modificata: Torsten Kinsella (chitarre e tastiere), Niels Kinsella (basso e chitarre), Michael Fenton (nuova batteria) e Jamie Dean (tastiere e piano). Concentrati sull'esecuzione, impeccabili in ogni passaggio, dimostrano di essere degli ottimi musicisti sia in studio che sul palco, dove sanno coinvolgere il loro pubblico. Non lo fanno solo con la loro musica: in molti brani è partito l'accompagnamento a "battito di mani" dei fan, ma anche spiegando e introducendo alcuni pezzi con qualche battuta. La suggestione maggiore però avviene sempre dentro alle note. Il loro spettacoli sono, oramai da tempo, arricchiti da video proiezioni create ad hoc per i pezzi. Si va da siderali panorami dello spazio cosmico (un po' banali a dir la verità), a piccole storie di domestica follia inquadrate in una piccola cornice a stella, o a montaggi su due ovali paralleli di film retrò di fantascienza e horror in bianco e nero. Cosa distingue i God is an astronaut dalle altre band post rock? Sono magmatici. Ad esempio: "Suicide", dal loro "All is violent.All is bright" (2005, Revive Records) dal vivo suona molto meno melodica e soft di quanto non si percepisca dal cd. L'atmosfera del pezzo è da subito incalzante e il picco tipicamente post-rock, a metà brano circa, risulta meno vertiginoso di quanto non ci si aspetti. Come nella tradizione del genere, anche questa band fa ampio uso dei muri sonori: cadute libere di chitarre-batteria-basso-tastiere, ma il loro modo tende a non sezionare i brani in parti opposte e perimetrate (andamento misurato e suoni rarefatti contro valanga musicale). La ricerca di questo gruppo si muove da suoni metal, allargandosi poi sugli spazi lunghi del post rock e del progressive e lo sfogo sugli strumenti è annunciato, vissuto in tutta la lunghezza dei pezzi. Le loro chitarre, anche nelle parti più distese e morbide, si percepiscono potenti e in attesa... di suonare più forti. Un esempio la bella "When Everything Dies" (da All is violent. All is bright), dove l'atmosfera si costruisce in un crescendo elettrico. Nella migliore tradizione post rock il cantato è raro e conta maggiormente sul suono della voce stessa, sottile e stirata in effetti metallici, più che sul testo. A fine concerto non posso non dare un’acchiata al banchetto dove purtroppo sono disponibili solo alcuni titoli della discografia del gruppo, recentemente rimasterizzata e proposta con un nuovo packaging. Silvia https://twitter.com/#!/silb4 Eccoci finalmente, amici miei...
E' venerdì 02 Marzo, e io e il mio fido amico Star, bassista dei QUAGGA, siamo al Deposito per la data zero del tour del TEATRO DEGLI ORRORI, cioè "“IL MONDO NUOVO “". Ma facciamo un passo indietro. E' il lunedì sera precedente, sono al PnBox di Torre di PN, c'è un reading di Capovilla, che come sapete è appunto il cantante del Teatro Degli Orrori. Arrivo tardi; mentre sorseggio un cabernet me lo trovo di fianco al buffet e non resisto. Glielo devo dire. E dopo i sinceri complimenti, gli comunico che per me lui rimane una specie di enigma. Nel senso. Sul palco (anche nei dischi, ma soprattutto sul palco) passa di lui una "verità", una concreta partecipazione così concreta, un pathos emotivo e comunicativo così "trasparente", che sa così poco di mestiere e di routine, che mi lascia ogni volta travolto. E che quindi, o sei il più grande mistificatore della nostra epoca, e riesci così bene a fregarci tutti. Oppure sei davvero così. Lui ride, si rivolge alla sua amica e le ripete la mia domanda. Ma poi, mentre chiacchieriamo, non risponde davvero. Forse non lo sa nemmeno lui di preciso. Ok, torniamo a venerdì e al Deposito Giordani. Sono le 21, arrivo di corsa trafelato poiché devo anche fare l'intervista agli interessanti Mantra Above The Spotless Melt Moon, uno dei due gruppi spalla, assieme ai 2Pigeons. Intervista di cui diamo conto in un'altra sezione del sito. L'intervista stessa mi impedisce però di vedere e sentire i 2Pigeons, peccato. Eccoci quindi nella pancia del Deposito, rinserrati tra centinaia di ragazzi e ragazze, un caldo davvero soffocante e un'attesa che per me è già sudata. Sono molto curioso di sentire il loro nuovo disco dal vivo, io che li avevo senti sempre qui al Deposito tempo fa, e accidenti se mi erano piaciuti. Si parte! La formazione è diversa da quella a cui eravamo abituati. Oltre al quartetto originale ecco l'inserimento di Marcello Batelli, già nei Planet Brain e Non Voglio che Clara, in supporto alle chitarre e Kole Laca di 2Pigeons alle tastiere. Il primo suono della serata è la bella voce, antipatica e affascinante di Capovilla che recita nel silenzio le prime strofe di "Rivendico". Segue “Non vedo l’ora” e "“Skopje", ma si sente che c'è qualcosa da mettere a punto. La voce di Capovilla, così importante e imprescindibile, si intuisce appena nell'oceano di frequenze ad alto volume delle chitarre. E qui scatta un discorso che spesso faccio sul Teatro Degli Orrori. Cioè il mio rammarico di non riuscire a capire bene le parole del cantato, i testi, la voce di Capovilla. In un gruppo così, con una tale forza nel cantante e delle parole, non si può quasi sommergere la sua voce col suono di tutto il resto, e lasciare solo a chi conosce i testi a memoria la possibilità di fruirne. Ma qui ci addentreremmo in un discorso che ahimé vale anche per tutto il rock in generale, e quindi soprassediamo. Le canzoni si susseguono, ma una cosa però comincia ad emergere: a parte l'ovvia "taratura" dei primi brani, anche nel prosieguo del concerto il suono che esce lascia un po' a desiderare. Il volume c'è, non c'è dubbio. Ma pare che il gruppo non abbia quella "botta", quell'impatto a cui eravamo abituati. Forse un'eccedenza di frequenze medio alte che saturano l'orecchio, ma non soddisfano appieno. E questo è strano se si pensa che la band propsio al Deposito aveva effettuato per tutta la settimana le prove del tour, a porte chiuse. Quindi ci si sarebbe aspettato un suono davvero perfetto. I brani nuovi scorrono, la presenza sul palco di Capovilla è sempre sobria ed impressionante allo stesso tempo. In un facile gioco di parole, la teatralità del teatro degli orrori, almeno quella che sgorga dalla figura del suo frontman, è sempre intensissima. GLi arrangiamenti di alcuni brani, con una tessitura un po' più elettronica forse fanno storcere leggermente il naso a qualche fan più tradizionalista (in effetti il loro ultimo album era stato accolto con alcune riserve dai suoi estimatori) però l'effetto generale è sempre notevolissimo. Il Teatro Degli Orrori continua a percorrere una sua strada, non battuta, originale, e riesce sempre a infondere delle emozioni particolari e profonde. La voce, il volto, la gestualità potente ma trattenuta di Capovilla, così come i testi delle canzoni, attendono ad un senso del tragico, della sconfitta, di rabbia e lucida disperazione, di lotta e di sofferenza, che colpiscono sempre con forza. Nei bis da segnalare una versione particolarmente ispirata de La Canzone Di Tom, un momento davvero moltro bello della serata, nella loro canzone che a mio avviso accarezza con maggior intensità la morte e la vita. In conclusione, un concerto con alcune piccole ombre, che però ci lascia intatto e rinnovato il gusto per un gruppo davvero importante e in qualche modo necessario. Massimo Adolph Nutini La scaletta della serata: 1-Rivendico 2-Non vedo l’ora 3- Per nessuno 4- Skopje 5- E’ colpa mia 6-Pablo 7-Martino 8-Doris 9-Monica 10-Ion 11- Direzioni diverse 12-Il terzo mondo 13- E lei venne! 14- Compagna Teresa 15- Cleverand 16-Adrian Bis 1: 17-Dimmi addio 18- Io cerco te 19- La canzone di Tom Bis 2: 20-Lezioni di musica Nonostante la perplessità di molti, la neve e tutto il resto, Peter Doherty cantante e chitarrista inglese (già leader di The Libertines e Babysgambles), arriva a Roncade potrandosi dietro un po’ di Francia.
Con lui infatti ci sono: Soko, cantautrice che apre il concerto, e Wolfman poeta e compagno di “merende” del nostro eroe tutto british. Quando si presenta su palco l’ex Libertines con la chitarra acustica intona "Times for Heroes" e non c’è bisogno di alcuna presentazione: è sempre lui, alticcio e sbraitante. La scaletta è quella che vorresti sentire, c’è spazio per i successi del passato: "Fuck Forever", "What Katie Did", "Can’t Stand Me Now", "Music When The Lights Go Out", e alcuni pezzi dall’ultimo album solista "Grace/Wasteland" del 2009, come "Arcady" e "The Last Of The English Roses". Tra un brano e un altro Pete si concende una pausa, si accende una sigaretta e si getta su di un divanetto portato appositamente sul palco, ma fa parte dello spettacolo. La sala è accesa dai flash dei cellulari e macchine fotografiche, il pubblico urla: è questo il Pete che vogliono vedere. Sale sul palco anche Wolfman, che “Les Paradis Artificiels” li ha letti e riletti e si vede, insieme cantano "For Lovers", pezzo che i due hanno scritto in Francia e vincitore del premio Ivor Novello per la composizione. Il tempo vola e dopo un ora esatta probabilmente cronometrata, il Pete Doherty acustic show chiude i battenti e giuro che tra le facce perplesse ho visto volti in lacrime. Recensione a cura di Tommaso Padovese. Sotto le volte della chiesa che preferisco, venerdì scorso si è svolta una serata ricca e varia nelle proposte musicali. Un duo astigiano apre la serata, Sophì: violino e chitarra propongono un genere che può ricordare i Marlene Kuntz. Gli Ex Otago gironzolano già nella navata del Diavolo Rosso. Alberto tiene il banchetto dei gadgets-ex otaghi: il gruppo ha realizzato il suo ultimo cd grazie a un'azione di finanziamento da parte dei fans che, aderendo al progetto "Mezze stagioni" (2011), ha versato la quota che ha permesso al gruppo di registrare e produrre il loro più recente lavoro. Felice di contribuire alla protezione e al mantenimento dell'intraprendente band, mi avvicino all'altare-banchetto e acquisto il cd. Chiedo anche se sono disponibili a rispondere a qualche domanda dopo il concerto, e l'idea piace. Gli Ex otago salgono sul palco con la formazione al completo: Maurizio Carucci alla voce, Alberto Argentesi pianola voce e giocattoli, Simone Bertuccini chitarra e pianola, Gabriele Floris alla batteria, e un volto nuovo ai fiati. Gli Ex Otago sono una festa. La festa del rione, di quelle che si organizzano con il comitato di quartiere e ci si trova tutti la sera a sentire la band degli amici che suona. E nel quartiere c'è sempre qualcuno che si è distinto, che ha attirato l'attenzione dei grandi media, come Marco, il primo pezzo, dedicato a Marco Olmo (atleta italiano di ultratrail). I pezzi degli Ex Otago parlano delle persone "piccole", fanno i loro nomi, scherzano con le storie d'amore e con le relative imprese epiche ("Samanta, sul lungomare abbiam toccato i sessanta"). Il live inizia spensierato e la location ex-sacrale è una fonte continua di ispirazione per gli interventi di Alberto, che consacra la serata con un sentenzioso "Suona et labora". Il nuovo cd c'è tutto e in alcuni pezzi in particolare si riesce a cogliere l'influenza della produzione di Davide Bertolini (Kings of convenience): spruzzate quasi distratte ma incisive di pianoforte e il ritmo scandito dalla chitarra ("Una vita col riporto", "Ricominciamo da tre"...). Non manca la cover di Corona "The rhytm of the night", che dell'originale perde l'ansia da divertimento discotecaro coatto, per distendersi sull'attitudine fresca e vivace del gruppo e sulla voce di Maurizio. Gran finale "in costume": gli Ex Otaghi escono di scena pochi minuti e ritornano con le "divise della bocciofila", prelevate dal video di "Figli degli hamburgher". Durante la festa del quartiere Ex Otago si balla spensierati e si parla di No Tav, degli amici che il quartiere lo lasciano per iniziare una nuova vita in un paese lontano (Costa Rica), della difficoltà di essere se stessi in un mondo di gente "col riporto" (Vita col riporto). Alberto fa un'incursione tra il pubblico che riempie la navata della chiesa del Diavolo rosso, e qualche fan si allunga sul palco. Pubblico danzereccio ed entusiasta: siamo felici che gli Ex Otago siano passati di qui. Silvia https://twitter.com/#!/silb4 |
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