Non voglio che loro. E mi fa una rabbia canaglia quando dico in giro “sai, adoro i Non Voglio che Clara” e loro si ostinano a rispondere: “Chiii?”. E non valgono nemmeno tanto quelle belle parole sprecate qualche settimana fa dai Mariposa: “Per farti apprezzare in Italia devi avere i capelli bianchi”. Loro non avranno le rughe, ma di sicuro hanno l’autorità e un decennio di lavori alle spalle.
È un po’ di tempo che è uscito Dei Cani, l’ultimo disco. Dal giorno che l’ho ascoltato non ho voluto che loro. E’ proprio il caso che vi spieghi chi sono? Non credo, autorevoli lettori. C’avrete sicuramente avuto a che fare in qualche occasione, saranno certamente passati dai vostri auricolari. E quindi anche voi mercoledì eravate in trepidante attesa (quella che si riserva solo ad un gruppo che ormai vi scorre in vena) all’Arteria.
Dei Cani è il numero uno del 2010 perché regala una piacevole sorpresa, un dolcetto sulla tavola apparecchiata dal precedente omonimo album. Piccoli suoni eterei, storie di amori e di vite spezzate, di occupazione e di immigrazione: l’immaginario di Dei Cani è meno bohemien e più politico eppure si fa musicare con melodie di squisita raffinatezza, di un’elaborazione tale da rendere difficile la loro eseguibilità live. Ahi! Mi sa che ho beccato il tasto dolente.
Confesso di non avervi detto tutto. E’ vero che non ho voluto che loro sin dall’inizio, ma è vero anche che fin dall’inizio ho temuto il peggio. E parlo di un timore che va oltre quello classico legato all’esibizione di un gruppo che ami. Parlo del timore di una band che smanetta troppo con i suoni in studio (vi ricordate i Baustelle?) e finisce un po’ col culo scoperto sul palco. Come sarà andata a finire?
I Non Voglio Che Clara infondo se la sono cavata. Dalla mia posizione non posso che ritenermi soddisfatto. Eppure, chiamatela acustica non buona, chiamatelo fonico incompetente o chiamateli smanettoni, ma qualcosa mancava. Mancava quella pienezza, quella regolarità del suono, quell’equilibrio retrò e malinconico che caratterizza il loro tipico approccio. Mancava la possibilità di vedere in faccia Fabio De Min, scomposto, di traverso e chino su quel piano, senza il bicchiere di vino con cui l’ho sempre immaginato. Immaginato…ecco dov’è l’inghippo: quando ti innamori, finisci per idealizzare. Infondo, lasciate correre, il concerto è stato magnifico: “Gli anni dell’Università”, “Tu la ragazza l’ami”, “Le Guerre”, “Cary Grant”… sembra che già solo dalla setlist puoi dire che è stato un gran concerto.
Ma forse Clara non mi basta. Forse da Clara avrei voluto qualcosa in più: l’avrei vista in un fumoso teatro di cabaret a cantare le note di “Secoli” come se la puntina del giradischi facesse fatica a passare fra la polvere, come se “L’inconsolabile” fosse duettata con una splendida attrice francese, che alla parola “Amore” facesse roteare la sua erre sul pubblico attento, seduto ai tavolini in vetro.
Idiozie, amici ed affezionati lettori, idiozie… sarà capitato anche a voi di fantasticare. Piuttosto, non ascoltate le miserie mentali di questo nostalgico e andate a sentire i Non Voglio Che Clara, perché, “non saranno le guerre quest’anno a farci paura e non saranno gli scontri a tenerci distanti”, ma sarà la buona musica a stringerci tutti.