La serata del 7 aprile al Locomotiv Club di Bologna si preannunciava già da tempo come uno degli appuntamenti da non perdere del mese, proponendo insieme una realtà già affermata e importante come i Deerhunter e l'interessante novità rappresentata dai Lower Dens.
Questi ultimi, con il loro dream pop spensierato che strizza l'occhio alla shoegaze, sono la perfetta istantanea del trend musicale oltreoceano del momento: eccentrici hipster con il risvolto sui jeans con tanto riverbero sulle chitarre. La qualità è comunque molto alta, malgrado l'uniformità del loro repertorio (breve, visto il solo album all'attivo, “Twin-Hand Movement), con cui non rischiano ma, senza sbilanciarsi troppo, regalano mezz'oretta abbondante di sound godibilissimo (con evidenti debiti ai momenti centrali della carriera degli stessi Deerhunter), dimostrandosi l'antipasto perfetto per la portata principale della serata.
Tempo di sistemare lo stage (più che altro viste le numerose pedaliere di entrambi i gruppi) e i protagonisti dello spettacolo salgono sul palco, con la loro classica disposizione anomala: mentre alle retrovie troviamo sicuro il batterista Moses Archuleta, il centro del palco è occupato dal quasi inebetito bassista Josh Fauver che, con la sua perenne espressione da cagnolino allucinato con lo sguardo perso nel vuoto che sa infervorarsi nei punti giusti (quasi a indicare da che parte pende il mood del brano suonato), è il divisore ideale per le due vere menti della band, lo schivo e strafottente chitarrista Lockett Pundt, sulla destra, e il frontman, showman, cantante, chitarrista e scheletrico indiscusso protagonista della serata Bradford Cox, entrato ballando al ritmo di una canzone anni 50 e posizionatosi sulla sinistra, sbilanciando inevitabilmente l'attenzione del pubblico su quell'angolo di palco.
Così come è bizzarra la disposizione dei musicisti, bizzarro è anche l'attacco dello show, che inizia quasi incespicando con un pezzo nuovo, cosa che non ci si aspetta andando a sentire una band che ormai ha quattro album all'attivo. Lo show tuttavia impenna subito dopo con “Desire Lines” (unico brano cantato da Pundt), assolutamente il pezzo migliore dell'ultimo lavoro “Halcyon Digest” e uno dei gioielli del loro repertorio, seguito da un altro di questi gioielli, “Hazel St.”, del secondo album, che insieme regalano quel quarto d'ora che ti fa dire che così può bastare e che lo spettacolo può tranquillamente finire.
Invece i Deerhunter di cose da dire ne hanno ancora parecchie: pur cimentandosi in una setlist che non riserva grandi sorprese, portando sul palco gran parte dell'ultimo album inserendo qua e là qualche vecchia perla, la band riesce a stupire proprio per la veste che i pezzi di “Halcyon Digest” assumono dal vivo. L'allegria solare che li circonda nelle loro versioni in studio viene meno in favore di sonorità molto più noise e shoegaze, concordantemente con quanto ci avevano abituato i Deerhunter negli anni centrali della loro carriera con gli album-capolavori “Cryptograms” e “Microcastle”, perdendo dal vivo, com'è giusto che sia, l'impronta ambient tipica del gruppo e aggiungendo tanta ma tanta energia in più (su “Memory Boy” addirittura c'è tra le prime file chi vuole coinvolgere il resto della platea in un divertente pogo). I pezzi nuovi e quelli vecchi sono così uniti in un piacevole vortice sonoro instancabile e assolutamente privo di punti morti. La setlist termina con il terzo immancabile gioiello della band, “Nothing Ever Happened”, questa volta del terzo album, seguita poi da altre due dei migliori brani dell'ultimo lavoro “Helicopter” e “He Would Have Laughed”
In tutto ciò il protagonista assoluto è Bradford Cox che, malgrado gli iniziali problemi al microfono (poi attenuati, ma mai del tutto risolti), fa fare alla sua voce tutto quello che vuole e rende la sua chitarra lo strumento principale della serata (sovrastando purtroppo eccessivamente la chitarra di Pundt, che avrebbe meritato lo stesso spazio). Il frontman si dimostra anche molto solare e comunicativo con il pubblico, a differenza del resto della band che sembra ostentare un'indifferenza che viene meno quando ogni tanto scappa un sorriso. Cox dichiara anche che questo è il primo concerto della sua vita in cui gli si è pezzata la camicia di sudore ed, effettivamente, sembra di stare all'inferno invece che al Locomotiv, ma diamo per buono questo difetto dicendo che è servito a rendere più intensa la serata.
Lo spettacolo è già magico ma il frontman vuole renderlo indimenticabile, quindi nelle encores, dopo aver chiesto al pubblico quali siano le canzoni che vogliono sentire, approfitta dell'estetica del locale facendo spegnere tutte le luci e tenendo accesa solo la mirrorball al centro della sala, che che proietta sulla band velocissime luci vorticanti quasi come se fosse un viaggio nello spazio. Così si conclude con la spaziale e quanto mai azzeccata “Octet” l'ora e mezza di puro spettacolo che i Deerhunter hanno saputo regalare. Proprio un concerto indimenticabile.
Recensione a cura di Giacomo Falcon.
Progetto Felix.