Anche se le band non sono più proprio sulla cresta dell’onda (sono quasi tutte caratterizzate da un buono se non buonissimo album d’esordio, seguito sempre da altri lavori che “non hanno soddisfatto le aspettative”) riescono a radunare una folla di quindicimila persone, che per un festival italiano dedicato alla musica (pseudo)indipendente rimane una cifra enorme, dovuta quasi esclusivamente ai doppi headliner della giornata: Arctic Monkeys e Kasabian. A completare la giornata ci sono altri nomi di rilievo della scena britannica, i White Lies (a cui dovrebbero conferire la cittadinanza italiana) e gli Wombats, e i nomi di contorno, Morning Parade e Heike Has The Giggles (gli unici italiani della giornata, ma assolutamente sulla stessa lunghezza d’onda degli altri gruppi). Avrebbero dovuto esserci anche i Vaccines ma, a causa di problemi della voce del cantante, hanno dato forfait; avrebbero dovuto essere sostituiti dai Pains Of Being Pure At Heart (qualitativamente spanne sopra qualunque nome già fatto in precedenza), ma per problemi logistici non sono potuti venire.
Al mio ingresso all’Arena Parco Nord i Morning Parade hanno appena finito di suonare, ma, a sentire i commenti di quelli che hanno assistito, non mi sono perso niente. In molti hanno pensato come me di prendersela comoda e di entrare giusto in tempo per i quattro concerti principali della giornata.
Gli Wombats si presentano sul palco con qualche synth e qualche chilo di più negli skinny jeans rispetto a un paio d’anni fa. Le nuove canzoni sono caratterizzate proprio da questo cambiamento (dai synth, non dai chili in più) e, seppur non brillino, la band sul palco ha un’energia irrefrenabile, con la buona gioia delle quindicimila persone giunte a Bologna solo per spintonarsi. Dalle cinque di pomeriggio fino a mezzanotte. Sono in quindicimila. Il concerto degli Wombats fila liscio fino al momento in cui finalmente sfornano la loro hit dedicata ai Joy Division e tutti sono contenti.
Per il concerto dei White Lies faccio la felicissima scelta di spostarmi sulla collinetta (non è vero che c’erano quindicimila persone che si spintonavano, sulla collinetta sono tutti tranquilli e si sta sempre benissimo). Li avevo già visti in passato e mi erano pure piaciuti, ma i due anni passati e il secondo album davvero davvero deludente, hanno reso la loro esibizione piuttosto soporifera. Anche perché i White Lies non fanno niente per intrattenere il pubblico, ma se ne rimangono lì immobili a suonare. In ogni caso il sottopalco è sempre movimentatissimo e chi è la sotto sembra davvero godersi il concerto. Dal canto mio, in mezzo a tutta quella noia, sono stato soddisfatto di aver sentito alcuni dei loro pezzi vecchi, su di tutti l’ancor emozionante “Death”, l’ombra mortale di quello che avrebbero potuto diventare.
Scende la sera e salgono sul palco gli attesissimi Kasabian che, pur avendo il quarto album pronto ad uscire, basano la scaletta quasi esclusivamente sui vecchi pezzi. Sebbene abbia sempre faticato ad apprezzarli, sono assolutamente il gruppo che sa calare meglio il palco tra tutti quelli della giornata. Il clima nelle prime file è come sempre invivibile, ma basta avvicinarsi al palco a distanza di sicurezza per sentire tutta l’energia che sprigionano pezzi come “Club Foot” o “Empire”.
Giunge infine il turno degli Arctic Monkeys, volenti o nolenti uno dei gruppi simbolo della scorsa decade. Malgrado le cadute stilistiche degli ultimi due album, i primi due, in particolare l’esordio “Whatever They Say I Am, That’s What I’m Not”, sono stati uno dei punti fermi di una generazione di gruppi rock (e gli Heike Has The Giggles ne sono la prova). Sebbene all’ancora giovanissimo frontman Alex Turner non sembri fregargliene un cazzo se non di suonare la sua chitarra e cantare, il resto della band dà spettacolo, batterista in primis. E se tra i pezzi nuovi non c’è nulla di molto interessante (anche se qualcosa si salva) i pezzi dei primi due album giungono infine a dare un senso a tutta la giornata: sentire finalmente dal vivo pezzi ormai storici come “The View From The Afternoon”, “When The Sun Goes Down” e, perché no, “Fluorescent Adolescent” è semplicemente figo. E per l’occasione sono pure nelle primissime file sommerso da spintoni e sudore.
Recensione a cura di Giacomo Falcon.
Progetto Felix.