Ad aprire la serata troviamo i Julie's Haircut, celeberrimo gruppo sperimentale italiano, che nel corso della sua lunga carriera ha avuto modo di allargare sempre di più il suo seguito; malgrado ciò si esibisce, comunque, in un Estragon ancora in gran parte vuoto, anche perché, a causa del giorno infrasettimanale, il concerto inizia prestissimo. L'esibizione non dura nemmeno mezz'ora, in cui i i Julie's Haircut propongono una manciata di pezzi sospesi tra le più varie sperimentazioni musicali, che vanno dal post-rock a sonorità sciamaniche accompagnate da bonghi, il tutto farcito dalla giusta quantità di sintetizzatori e feedback.
Quando è la volta dei Mercury Rev l'Estragon è ancora sconsolatamente vuoto, malgrado i sorrisi raggianti del cantante Jonathan Donahue (alquanto fatto, o forse solo ebete), ma nel corso della serata avrà modo di riempirsi. Oltre a Jonathan Donahue, della formazione originale, troviamo solo il chitarrista Grasshopper, mentre a completare il sound della band troviamo un batterista e due tastieristi polistrumentisti, che aggiungono nel corso del concerto anche le linee di basso che nessun bassista sembrava aver voglia di suonare: avrebbero anche potuto essere linee più semplici e meno ingombranti, visto il continuo chiedersi da dove venissero, ma finché giovano all'intreccio di suoni non c'è nessun problema.
La scaletta non riserva sicuramente sorprese, visto che i brani di “Deserter's Song” sono eseguiti in ordine l'uno dopo l'altro, ma l'esibizione è una sorpresa continua. Tutto inizia con la meravigliosa “Holes”, pezzo eseguito con perfezione estrema che regala ai presenti una scarica infinita di brividi nostalgici, ma si avverte il rischio che questi brividi siano l'unica cosa che il concerto possa lasciare. Invece i Mercury Rev a ogni canzone stupiscono per emotività, perizia strumentale e atmosfera, anche nei pezzi ritenuti minori nell'insieme dell'album. Aspetto più piacevole del concerto sono i tappeti sonori posti in coda a diverse canzoni che rievocano le origini shoegaze della band non risultando mai ingombranti o ripetitivi, ma sempre più coinvolgenti. Stella più brillante di tutte, manco a dirlo, quell'eterno capolavoro di “Goddess On A Hiway”.
Dopo la carichissima e favolosa “Delta Sun Bottleneck Stomp”, che chiude l'album, ci si aspetta che la magia finisca e invece Donahue, Grasshopper e compagni tornano sul palco per regalare un bis composto da quattro estratti dai loro lavori più recenti (“In A Funny Way”, “Car Wash Hair”, “The Dark Is Rising” e la conclusiva “Senses On Fire”), che, benché molto interessanti, non riescono ad aggiungere nulla a quanto è stata perfetta la serata.
Recensione a cura di Giacomo Falcon.
Progetto Felix.